Ieri sera sono tornata a casa e mi sono abbracciata forte Davide.
Mi sono sentita un’idiota per tutte le volte che lo sgrido quando sono troppo stanca, troppo nervosa, troppo intenta a farmi gli affari miei, che rivendico come un sacrosanto diritto, ma mi sono detta che a volte esagero.
Abbiamo giocato per terra, a farci il solletico, mi sono bevuta la sua risata da bambolotto col disco, di quelli che usavano negli anni ’80, quando io ero bambina.
Io ero bambina, e sono diventata adulta.
Anche lui è un bambino, e mi chiedo chi deciderà se crescerà o no. Mi chiedo se le mamme dei bambini di Aleppo se la siano mai posta questa domanda, e se la risposta sia stata infagottarli e affidarli a chi riusciva a fuggire, appeso ad un camion o approdato su un barcone, sul primo lembo di mare disponibile.
Siamo andati a dormire tardi ieri sera, un senso d’inquietudine mi accompagnava a non mi ha lasciata dormire fino alle due di notte.
Lo guardavo dormire, la fronte sudata, gli occhi semiaperti che mi hanno sempre fatto impressione. L’ho immaginato morto, come quei bambini che ho intravisto nelle immagini che mi rifiuto di guardare – sono una pappamolle? O solo troppo umana? – e non ho retto nemmeno un secondo quel pensiero fugace.
L’ho respirato, in quell’angolo dietro l’orecchio che si sta facendo sempre meno morbido, ma ancora accoglie i suoi riccioli ribelli.
L’ho visto abbandonato, l’ho immaginato sereno , protetto, tranquillo.
Perché questo dovrebbe essere l’infanzia.
Ho cercato di dare il giusto peso ai suoi capricci, alle punizioni – una settimana senza tablet! – e mi sono detta che è impossibile usare un metro equo, mettere sul piatto della bilancia la morte e un capriccio, la carestia e i mille giocattoli sparsi per la sua stanza, la guerra e i cartoni animati.
Cosa farei io? Cosa farei se gli puntassero un fucile alla fronte? Se dovessi vivere ogni giorno col terrore delle sirene che annunciano i bombardamenti? Come hanno fatto i nostri nonni? Mio padre aveva l’età di Davide durante la seconda guerra mondiale.
E’ sopravvissuto, tutto intero.
Come ha fatto a placare l’angoscia mia nonna? Forse succede come in tutte le situazioni d’emergenza: ci vivi dentro, attingi risorse dalle scariche quotidiane di adrenalina, non hai tempo per pensieri molesti. Sopravvivere è la parola d’ordine. Esiste solo il qui, oggi, le cose pratiche, mangiare, respirare, pisciare, toccarsi gambe e braccia per sapere di esistere ancora, tutti interi.
Come lo spiegherò un giorno a Davide tutto questo? Quale giustificazione avremo noi, perennemente connessi sui social, per questo olocausto? Non avremo scusanti, sappiamo tutto.
Solo non sappiamo come fare.
O preferiamo pensare non esista.
Ieri sera mi sono portata per casa i miei pensieri oziosi, quasi banali come un fardello inutilmente pesante. Mi sono struccata, ho guardato la mia soap preferita cazzeggiando su un gruppo Facebook, tutto in una specie di ovatta che cancellava i miei sensi di colpa e riduceva a brandelli le mie certezze.
Mi sono sentita stupida, ingrata, col culo posato sul divano, in quella grande casa vuota tutta per me, che mi è costata sacrifici e sudore.
Non riesco a voltarmi dall’altra parte, eppure lo faccio ogni giorno per sopravvivere e non soccombere, ingrata e superficiale come solo da questa parte del mondo possiamo permetterci di essere.
Mi dico che il mio lo faccio tutti i santi giorni, ma non basta.
Allora ho postato una foto buffa di me e Davide su Facebook per stemperare la tensione, per dimostrare che ancora esistiamo, tutti interi.